Controlli e liti

Imposta evasa, costi ammessi se provati

di Laura Ambrosi

Nel reato di omessa dichiarazione, per determinare l’imposta evasa è corretto considerare anche i costi deducibili ma solo a condizione che l’interessato produca elementi che dimostrino la loro esistenza. A confermare questo principio è la Cassazione con la sentenza 230/2020.

I l legale rappresentante di una società veniva condannato per il reato di omessa dichiarazione. L’imputato in Cassazione lamentava che la determinazione dell’imposta evasa non aveva tenuto conto dei costi. Il volume di affari, infatti, derivava dai dati presenti nell’anagrafe tributaria contenuti nell’elenco clienti-fornitori.

I giudici di legittimità sul punto hanno rilevato che alla determinazione dell’imponibile concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, i quali però devono essere certi e determinabili in modo obiettivo. Si tratta di elementi che non possono essere presunti e pertanto dinanzi alla ricostruzione di ricavi, è l’imputato a dover provare l’esistenza dei relativi costi.

La Cassazione ha precisato che nemmeno in sede penale è sufficiente presumere l’esistenza di costi deducibili, poiché occorrono allegazioni fattuali che rendano legittimo il dubbio sulla loro sussistenza. La Suprema corte ha confermato che è corretto considerare nel reato di dichiarazione omessa anche i costi, ma l’onere probatorio della loro esistenza è a carico dell’interessato.

La decisione, tuttavia, pare rimarcare che a tal fine siano sufficienti elementi tali da indurre «al ragionevole dubbio in ordine alla loro esistenza». Il principio pare così risolvere in senso favorevole al contribuente le conseguenze derivanti dalle presunzioni tributarie: gli uffici erariali, infatti, disconoscono qualunque costo nel presupposto che solo la regolare registrazione delle fatture e la presentazione della dichiarazione attribuisce certezza alle spese sostenute.

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