Controlli e liti

Anche la Cassazione si confonde sull’abuso del diritto

di Andrea Manzitti

Dovrebbe essere finalmente chiaro che elusione e abuso del diritto tributario identificano il comportamento di chi ottiene un risparmio tributario che contrasta con la logica sottesa alla struttura portante del tributo risparmiato senza violare alcuna norma.

È oggettivamente difficile distinguere tra risparmio lecito ed elusione vietata se non si conoscono struttura e principi generali dei singoli tributi.

In questo casi, il giudizio rischia di essere viziato da altre suggestioni, arrivando all’eccesso di considerare sempre e comunque elusivo il comportamento orientato all’ottenimento di un vantaggio fiscale. Si tratta di pregiudizio così grave e diffuso che nel 2015 è stato ritenuto opportuno ribadire in via legislativa che il contribuente è libero di scegliere non solo tra i regimi opzionali offerti dalla legge, ma anche tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.

Per chiarire che non si tratta di una novità, la norma dice che la libertà di scelta «resta ferma», cioè esisteva già prima della legge. Questa libertà incontra il limite del risparmio «indebito», che la stessa legge definisce come quello realizzato in contrasto con la finalità delle norme o con i principi dell’ordinamento tributario.

In alcune recenti sentenze dalla Cassazione questo fondamentale passaggio sembra sia stato omesso. Prendiamo il caso dei dividendi pagati da una società controllata italiana a una società controllante comunitaria. Sorprendendo tutti, la Suprema corte ha statuito che l’esenzione da ritenuta prevista dalle direttive comunitarie e dalle norme interne di attuazione non si applica se la società controllante non ha pagato imposte sui dividendi (sentenza 25490/2019). La direttiva impone allo Stato della controllata di prelevare ritenute e a quello della controllante di astenersi dal tassare i dividendi. Non si tratta di un capriccio o di una svista. La doppia esenzione risponde all’esigenza di evitare la doppia imposizione economica sugli utili societari, così come avviene ovunque per le distribuzioni di utili puramente domestiche. Tutto qui.

Analoga sorpresa ha suscitato la sentenza 31772/2019 che ha giudicato potenzialmente abusiva una fusione per incorporazione con affrancamento gratuito del disavanzo da annullamento effettuata nell’ambito di una articolata riorganizzazione. La legge allora vigente consentiva di dare rilevanza tributaria al disavanzo da annullamento nei limiti della plusvalenza assoggettata a imposta in capo al venditore della partecipazione annullata. Nei giudizi di merito, la contestazione era stata annullata. La Cassazione ha cassato la sentenza di appello chiedendo al giudice del rinvio di indagare meglio sulle operazioni precedenti alla fusione, sospettate di costituire parte di un disegno elusivo. Sorprende l’assenza di analisi sul contrasto tra l’operazione e la finalità delle norme o i principi dell’ordinamento tributario. Ma ancor di più sorprende che i giudici abbiano dato per scontato che l’affrancamento gratuito del disavanzo sia un vantaggio fiscale indebito. Non è così. Il riconoscimento gratuito del disavanzo riequilibra l’imposizione sulla plusvalenza per chi ha ceduto alla incorporante la partecipazione annullata. Come nel caso dei dividendi, si tratta di un principio di sistema nell’ambito dell’imposizione sulle società, volto a creare una simmetria tra tassazione in capo al venditore e riconoscimento dei valori fiscali in capo all’acquirente. Se si dimenticano questi fondamentali, aumenta l’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali e diminuisce rapidamente la fiducia nell’ordinamento.

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