Imposte

Regime degli impatriati, chance da applicare alle aziende

di Antonio Tomassini

L’Italia nell’era della Brexit e delle guerre tariffarie dovrebbe diventare un distretto finanziario europeo per i gruppi provenienti da tutto il mondo, attraendo così “aziende impatriate”. Le regole sugli impatriati persone fisiche hanno agevolato il trasferimento di soggetti ad alto patrimonio, manager, personale qualificato, sportivi e pensionati. Anche se resta il rischio che molti impatriati lascino il Paese dopo la fine del regime agevolato, sono un caso di successo da non abbandonare.

In Italia le riforme fiscali vere sono forse impossibili nell’attuale scenario politico. Meglio allora puntare su misure settoriali, semplici e capaci di intercettare ricchezza, consumi e investimenti che diversamente mai arriverebbero nel nostro Paese.

Da qui la proposta di “replicare” le misure di attrazione del capitale umano, che hanno messo d’accordo tre governi, puntando ad aziende estere impatriate. Si possono ipotizzare, in particolare, incentivi fiscali subordinati all’assunzione di nuovi dipendenti e all’effettuazione di investimenti nel nostro Paese. Incentivi che potrebbero consistere in (contenute e limitate nel tempo) riduzioni di imposte, tra cui: una più bassa aliquota Irap; ritenute su dividendi in uscita all’1,2% anche verso Paesi extraUe; detassazione di fringe benefit per casa, famiglia e scuola; imposte fisse di registro per nuove operazioni immobiliari; maggiorazione della reintrodotta agevolazione Ace; crediti d’imposta legati alla quotazione in Borsa (che deve essere veicolo di crescita per le imprese anche italiane e non solo Pmi), a investimenti infrastrutturali e alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico e culturale, anche privato.

Inoltre - valore più importante delle basse aliquote - certezza del diritto (accesso senza limiti a cooperative compliance e interpello nuovi investimenti) e regole di governo societario flessibili sul modello di quelle vigenti in Olanda (Paese che attrae la sedi legali di tanti gruppi, anche italiani, non per ragioni fiscali, ma proprio per una governance che consente di tenere il potere gestorio in mano a un nucleo ristretto).

Si tratterebbe di misure che resistono al vaglio sia comunitario che costituzionale, presentando caratteri di temporaneità ed essendo frutto di una discrezionalità legislativa non irragionevole che fa leva su valutazioni di politica economica. La volontà del resto non è solo quella di attirare società impatriate, ma anche di stimolare assunzioni, insediamenti produttivi, centri di ricerca e investimenti infrastrutturali.

Le agevolazioni spetterebbero a quelle società o istituzioni finanziarie che dovessero scegliere l’Italia per stabilire la propria holding o subholding pura o mista (perché magari si tratta di una realtà produttiva o di un centro di ricerca). Quindi società (o stabili organizzazioni) che trasferiscano la residenza fiscale in Italia e siano controllanti di ultimo livello o subholding controllate sulla base dell’articolo 2359, comma 1, numero 1), del Codice civile da soggetti residenti in Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni (vi rientrerebbero le filiali di gruppi multinazionali già presenti in Italia che, magari attraverso una fusione transnazionale, dovessero incorporare la holding europea del gruppo localizzata in altro Paese).

Le agevolazioni potrebbero durare 10 o 15 anni ed essere vincolate all’assunzione (o trasferimento dall’estero) di un numero minimo di dipendenti. Non è così difficile rendere il Paese più competitivo.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©