Controlli e liti

Studi di settore, incongruenze e antieconomicità legittimano l’accertamento

di Alessandro Borgoglio

L’infedeltà dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, unitamente a incongruenze nelle rimanenze finali dichiarate, nonché all’antieconomicità dell’attività svolta costituiscono un quadro probatorio sufficiente a sostenere l’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, qualora il contribuente non fornisca un’adeguata prova contraria. È quanto si desume dall’ordinanza 30377/2019 della Cassazione.

A un’impresa edile, costituita sotto forma di ditta individuale, era stato notificato un accertamento analitico-induttivo ex articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, attesa:
a) l’inattendibilità delle scritture contabili, con specifico riferimento ad alcuni costi ritenuti inesistenti e, sul piano dei componenti positivi, alla arbitraria riduzione delle rimanenze finali degli immobili;
b) l’infedeltà dei dati indicati dal contribuente nell’apposita dichiarazione dello studio di settore che egli stesso aveva presentato;
c) le incongruenze derivanti dall’applicazione dello studio di settore; d) l’antieconomicità dell’attività svolta.

Il contribuente si era limitato a controbattere che la sua contabilità era formalmente corretta, che l’attività era cessata l’anno successivo a quello di accertamento, e che lo scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli desumibili dall’applicazione degli studi di settore non sarebbe stato sufficiente a sorreggere l’accertamento.

I giudici di merito avevano già deciso che tali eccezioni del contribuente non erano idonee a contrastare il più ampio quadro probatorio fornito dal Fisco, e la Suprema corte ha condiviso tale decisione, stabilendo che la critica del contribuente era rivolta soltanto a uno dei plurimi elementi inferenziali che reggevano l’accertamento analitico-induttivo, vale a dire quello concernente lo scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi risultanti dallo studio di settore, mentre nulla era stato eccepito circa gli altri elementi indiziari convergenti posti dall’Ufficio a base dell’atto impositivo.

Insomma, la divergenza tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore è un elemento che gli Uffici spesso annoverano nei loro atti impositivi e talvolta utilizzano anche per accertare i maggiori ricavi, ma tale elemento è ormai utilizzato, di solito, come un ulteriore tassello probatorio di sostegno alla pretesa erariale, che si fonda generalmente su una pluralità di elementi indiziari: in questi casi, evidentemente, è inutile che la difesa del contribuente si incentri soltanto su tale divergenza, perché è il complesso probatorio di tutti gli elementi addotti dal Fisco a costituire una presunzione sufficiente per l’accertamento, e non il solo e singolo elemento dato dal predetto scostamento.

I giudici di legittimità, peraltro, hanno sempre affermato che, sia in tema di imposte dirette che di Iva, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, l’Amministrazione finanziaria può desumere in via induttiva il reddito del contribuente, in base all’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973 e dell’articolo 54, commi 2 e 3, del Dpr 633/1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, incombendo sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni (Cassazione 33087 e 953 del 2018).

Gli elementi assunti a fonte di presunzione, peraltro, non devono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, purché preciso e grave, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata: è pertanto legittimo l’accertamento, anche in presenza di regolarità formale della contabilità, fondato sull’unico elemento indiziario della percentuale di ricarico determinata dall’Ufficio (Cassazione 43/2019).

Cassazione, ordinanza 30377/2019

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