Contabilità

La differenza fra passivo e attivo misura il danno

di Giovanbattista Tona

Per calcolare il danno provocato dagli amministratori, che abbiano proseguito l’attività di impresa in violazione dell’articolo 2486 del Codice civile, nonostante si fosse verificata una causa di scioglimento della società, può essere utilizzato in via equitativa e anche per il passato il criterio stabilito dall’articolo 378 del Codice della crisi.

Se in particolare per più anni non sono state tenute le scritture contabili e fiscali e non è stato possibile per questo accertare gli effetti pregiudizievoli provocati dal comportamento degli amministratori il danno può essere commisurato equitativamente nell’ammontare corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare

Lo ha stabilito una sentenza del Tribunale di Bologna del 2 dicembre 2019, che ha di fatto esteso gli effetti della norma di recente introduzione anche alle procedure fallimentari avviate prima della sua entrata in vigore.

L’inadempimento dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili non è di per sè titolo per il risarcimento del danno, poiché occorre che si dia prova che da tale condotta dell’amministratore siano derivati concreti danni patrimoniali per il patrimonio della società.

In questo senso si era pronunciato il Tribunale di Roma che, con sentenza del 30 luglio del 2018, aveva distinto le mere irregolarità formali dagli artifici contabili rivelatori di condotte gestorie censurabili e finalizzate ad occultare o a surrettiziamente giustificare utilizzi delle risorse della società al di fuori dell’ambito delimitato dallo scopo e dai concreti interessi sociali.

Tuttavia l’assenza o l’inaffidabilità della documentazione contabile rende complessa la commisurazione più ancora della prova delle conseguenze dannose.

Per questo il criterio equitativo era stato già avvalorato dai giudici di legittimità, per esempio, in un caso in cui gli inadempimenti dell’amministratore, dimostrati dal curatore, erano consistiti nella cessione a se stesso di rami di azienda per un prezzo vile e poi nella pluriennale mancata tenuta delle scritture contabili; in quella vicenda (Cassazione n. 2500 dell’1 febbraio 2018), si è affermato che il giudice può ricorrere alla liquidazione equitativa del danno, nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, quando, in ragione delle circostanze del caso concreto e in presenza di specifiche ragioni che abbiano impedito l’accertamento dei danni, il parametro si dimostri logicamente plausibile.

In un precedente più risalente già i giudici di legittimità avevano ritenuto legittimo il ricorso equitativo al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali, nel caso di un amministratore che aveva proseguito l'attività ricorrendo abusivamente al credito pur in presenza di una causa di scioglimento della società, e stante l'impossibilità di una ricostruzione analitica perchè i dati contabili erano incompleti e per la notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento (Cassazione n.9983 del 20 aprile 2017).

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