Imposte

Se la società estera apre in Italia, patrimonio a valore di mercato

di Marco Piazza

I presupposti per il riconoscimento fiscale dei valori in entrata in caso di trasferimento della sede di una società estera in Italia (articolo 166-bis del Testo unico) coincidono con quelli di applicazione della exit tax (articolo 166 del Testo unico).

Di conseguenza, il valore fiscale delle attività e passività facenti parte del patrimonio del soggetto che ha trasferito, la residenza in Italia coincide con il suo «valore di mercato».

Fra gli attivi trasferiti si comprende l'avviamento, anche se non è stato acquistato sopportando un onere effettivo nel Paese di provenienza, ma se è stato prodotto internamente.

La nuova formulazione degli articoli 166 e 166-bis del Testo unico, inoltre, rende pacifico che la regola del «valore di mercato» opera anche per i trasferimenti di attività e passività in occasione di operazioni straordinarie internazionali (fusioni, scissioni e conferimenti).

Queste alcune delle più significative considerazioni contenute nella circolare 3/2019 di Assoholding che ricostruisce – fra l’altro – l’evoluzione nel tempo delle norme e della prassi sulla determinazione del costo fiscale delle attività e passività della società nei cosiddetti «trasferimenti in entrata».

Viene ricordato in particolare che prima dell’introduzione (a opera del «decreto Internazionalizzazione» del 2015) dell’articolo 166-bis del Testo unico si applicava la risoluzione 345/08 secondo la quale solo in caso di applicazione di una exit tax nello Stato di provenienza, si sarebbe dovuto utilizzare il valore corrente in luogo del costo storico.

Dal 2016, l’articolo 166-bis ha generalizzato il criterio del valore normale di cui all’articolo 9, applicabile inderogabilmente per la valutazione delle attività, ma anche delle passività, a prescindere dalla base imponibile dell’eventuale exit tax operata all’estero (Telefisco 2019 e risoluzione 92/19).

Dal 2019, a seguito delle modifiche introdotte con il Dlgs 142/18, il concetto di «valore normale» viene sostituito con quello di «valore di mercato», determinato, come precisa il comma 4, con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili tenendo conto, qualora si tratti di valore riferibile a un complesso aziendale o a un ramo di azienda, del valore dell’avviamento e sulle indicazioni contenute nelle Linee guida sulla determinazione di prezzi di trasferimento italiane (decreto 18 maggio 2018) che a loro volta richiamano quelle Ocse.

Con riferimento ai trasferimenti fatti fra il 2016 e il 2018 – in vigenza quindi della precedente versione dell’articolo 166-bis – l’agenzia delle Entrate ha fornito diversi chiarimenti operativi (risposta all’interrogazione parlamentare 5-08068 del 2016; risoluzione 69/16; risoluzione 92/19; risposta 460/19, in gran parte ancora validi).

È invece superata, dalla versione dell’articolo 166-bis vigente dal 2019, l’affermazione contenuta nella risoluzione 69/E/16 (e ribadita nella risoluzione 92/E/19 e nel parere 460/19) secondo cui non sarebbe riconosciuto – per i trasferimenti fatti fino al 2018 – il valore normale degli attivi (come l’avviamento) diversi dai beni per i quali l’impresa abbia sostenuto un onere effettivo nel paese di provenienza.

Il tenore letterale dell’articolo 166-bis, comma 4 come modificato dal Dlgs 142/18, infatti, non ammette equivoci; le pronunce citate, del resto, si riferiscono esplicitamente al regime previgente.

Giustamente, comunque, la circolare Assoholding esprime perplessità sulla fondatezza dell’affermazione anche con riferimento al regime previgente; ciò sia perché verrebbe meno la necessaria simmetria fra regime del riconoscimento dei valori d’ingresso ed exit tax, sia perché comporterebbe di norma fenomeni di doppia tassazione internazionale non ammessi – per inciso – dalla giurisprudenza della Corte (in particolare, C-371/10 oltre alle altre sopra citate) nonché dalle stesse decisioni del Consiglio Ue in materia (si veda la risoluzione 2008/C 323/01).

Peraltro, la tesi secondo cui l’avviamento non costituirebbe costo fiscalmente riconosciuto se non pagato, evoca un antico analogo contenzioso, in tema avviamento e disavanzo di fusione, promosso dal Secit negli anni ’90, da cui l’Amministrazione finanziaria è uscita totalmente soccombente (oltre una ventina di sentenze della Cassazione pubblicate fra la 9663/00 e la 12308/06).

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